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PROGETTO LEFAVE


ATTENZIONEATTENZIONE!
D'ora in nanzi, molta parte delle cose che facciamo, che creiamo, che siamo, le trovate soprattutto qui: https://www.facebook.com/progettolefave
che poi siamo sempre noi: LEFAVE!

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Volodja mi ha sputato in fronte

C'era un uomo rosso di capelli, che non aveva occhi né orecchie. Non aveva nemmeno i capelli, tanto che lo dicevano rosso convenzionalmente. Parlare non poteva, dato che non aveva la bocca. Nemmeno il naso aveva. Non aveva neppure le mani o i piedi. E il ventre non aveva e la schiena non aveva e la spina dorsale non aveva, né aveva viscere di nessun tipo. Non c'era niente. Quindi non si capisce di chi si tratti. Meglio che di lui non parliamo più.

Il Cantiere Cronopios


Il Cantiere Cronopios è un gruppo di teatro sperimentale attivo a Verona, nell'attuale formazione, dall'inizio del 2012, nato come evoluzione di precedenti esperienze teatrali (a partire dal 2000, con il gruppo Uqbar Teatro e la regia di Daria Anfelli, per poi formare il gruppo Teatrosbieco nel 2006, diventato il gruppo dei Bruscansi nel 2008).

Il gruppo si occupa di ricerca teatrale, con particolare attenzione all'utilizzo del corpo e della fisicità, all'uso della voce anche svincolata dalla parola, alla percezione di sé e dell'altro nello spazio, all'efficacia del gesto e del movimento, al concetto e alla tecnica dell'improvvisazione. Questa esplorazione viene portata avanti in due direzioni: un laboratorio costante per lavorare sulle potenzialità dell'attore e del gruppo, mediante attività di ricerca in cui si privilegia la sperimentazione e l'imprevisto, e periodi intensivi di prove, finalizzate alla realizzazione e alla messa in scena di spettacoli.

Parallelamente, il gruppo organizza anche laboratori artistici e artigianali di creazione di burattini con materiale di riciclo; corsi di pittura e disegno; spettacoli di burattini; letture e reading teatrali.

Infine, i Cantiere Cronopios si insinuano nelle pieghe della città e la stupiscono.

azioni sottili e azioni noviembre



le seconde: grossolana esplosiva incursione del teatro nel reale, di impatto, azioni che sorprendono e colpiscono, dove è ben chiaro che sta accadendo qualcosa di "rappresentativo", anche se non necessariamente "teatrale" in senso stretto. A prescindere dal contenuto, goliardico, circense, impegnato... Hanno il fine prepotente di stupire, magari di far pensare.

le prime: personalmente, le migliori. Per niente facili. Si tratta di brevissime azioni che lievemente, per un attimo, cambiano la normalità del reale: a chi guarda non è dato di sapere con certezza se sta succedendo qualcosa di rappresentativo oppure no (ma attenzione: è ben diverso da un inganno), e questo procura un sottile senso di straniamento. Se le prime volevano sorprendere, queste invece cambiano realmente la realtà, nel breve respiro del loro accadere, propongono un diverso modo della normalità.


hard road to the dark side


Ho un ardente piacere che mi prende il fegato, arde, mi fa stare malissimo.
Caro diario, qual'è il passo da fare, dove, dimmi la direzione, dammi il peso del piede, dimmi lo stile la scarpa il calzino.
Non mi arrendo, non mi arrendo, o mi arrendo subito, prima di cominciare, così non se ne accorge nessuno. No, troppo tardi.
Continuo ad avere debolezza e forza in promiscuo incastro, esattamente nello stesso posto, cresce l'una e cresce l'altra, così non va, non può continuare, serve recidere. Tra le altre cose, soprattutto, questo posto si chiama incertezza, indefinibilità. Così si chiama.
La mia forza, la mia debolezza: di cosa parlo, non so dire.
Eppure è necessario, da una parte la libertà, dall'altra la comunicazione, non sono solo, non ho intenzione di esserlo, da una parte ci sono io, dall'altra voi, tutti voi.
E' un bel problema, quando ci si ritrova ostinati a versare nel mercimonio della parola, è un problema serio, che moneta mi si può accettare, che cosa ho da offrire, che cosa voglio dare. Parola, parola, nostra stupida sofisticheria, vizio angusto -aria viziata- ne vengo fuori. Ne verrei fuori con impeto, con sbrego, con pazienza di lumaca, ci provo senza sapere come fare, ci provo altrove, non qui. Qui conta la filigrana, quello che si intravede al di là -e non vale il poco dire dalle ampie maglie, nè è la colpa del troppo dire, un buon scrivere forse aiuterebbe, forse, aiuterebbe a vedere, ma cosa, sempre di parola si tratta- quello che si può intuire non sarà mai esattamente quello. Per arrivare laggiù ci sono altre vie, nessuno sa mai come percorrerle prima di averlo fatto, nessuno sospetta, nessuno sa di averle percorse prima di girarsi indietro.
Qua, quindi, mi limiterò a lamentarmi.
Salacadula. Megicabula. Bibidi, bobidi, bu.
Tutto parte da un impressione: l'impressione è giusta, almeno in due accezioni. La seconda parla di come deve essere il suo viso, il suo viso dovrebbe venire fuori dalla mano di Manet, che rimanga impressione, e così sia.
Mi chiedo, scuotendo il capo -ma senza farlo- con ingenuità che solo uno studente si può permettere: cosa c'è di meglio? Ho ragione. Ma farei meglio ad andare per gradi, farei meglio a chiedermi: cosa c'è di uguale? Domanda meno assoluta, più controversa e ancora più ingenua, di quell'ingenuità che non fa sorridere, o solo un poco. Vale dire che il mondo è grande, che non c'è niente di uguale, che il mondo è grande, che c'è una moltitudine di cose uguali? No, usciamo da questo stuccoso gioco dell'ingenuità.
Abbiamo un'occasione sulla bocca delle dita, soprattutto questa è la mia impressione, un'occasione unica -non conta che possa essere uguale a moltitudine d'altre- un'occasione schiettamente irripetibile. La posta in gioco è altissima, quello che si può perdere è forse molto di più di quello che potrebbe riempire la saccoccia, qualcosa da raccontare ai nipotini, una passeggera soddisfazione, alcun brivido -all'apparenza, soprattutto questa è la mia impressione.
E sono altisonante, adesso dico quello che si rischia e altisuono: si rischiano le botte, si rischia l'incomprensione, si rischia, soprattutto questa è la mia impressione, la profonda messa in discussione di ciò che profondamente ci costituisce, la krisis, mamma mia, lo scacco -come mugugnava Socrate quando nessuno poteva sentirlo.
Mica cazzi.
Il mio problema è che soffro di strumentale strabismo, che amabile difetto, per questo mi amo: confondo i piatti della bilancia, mi capita di non distinguere rischi e guadagni, gioco a ribaltarli, gli uni da una parte gli altri dall'altra.
Come spiegarlo a chi si accomoda, come spiegare il brivido possibile? Come farlo, senza che l'entusiastica convinzione venga scambiata per arrogante megalomania?
Fischiettare, potrebbe essere un modo.
Fischiettarlo.
Ci sono cose più facili da fare, più immediate, che raccolgono più consensi, più volenterosi aiuti, barili di compassione, di empatia. Più uguali.
In generale, si gioca ad impegnarsi, si fanno cose belle, cose limpide e utili.
Mamma mia dammi cento lire, che sulla faccia nascosta io voglio andar.
Firulì, firulà.

IL DECALOGO MANGIAMERDISTA


Manoscritto seicentesco di tal Sergio Sarsone, ritrovato e trascritto da Andrea Masotti, Michele Barbolini, Carlo Pigozzi

La punta: sense

O anime morte, o spenti simulacri vacillanti all’incerto confine tra il non essere e l’essere stati, o noi, sacchi di merda e pensiero, guardiamoci nello sguardo: basta. È ora di finirla. È ora di ricominciare.
Qui è il tremito che scuote la terra e munge i peri di infruttuoso marciume, qui è il titanico mareggiare che annega le cantine del nostro esistere, rovinando i salami, ora è il fastidioso trillo che sveglia, che ci alza la testa dal libro e al libro ci ritorna, con occhi nuovi, di chi riscopre per la prima volta le cose, occhi di clown, di bambino: qui, ora.
Ma se è vero -persecuzione, catartica mania- che un sistema si pone a decidere a monte un codice segnico fuori dal quale non si può uscire per dire le cose, anche nella più aspra protesta, noi su questo sistema possiamo soffiare il nostro vento, quello che fa parlare le foglie e solletica la spina dorsale, dobbiamo avanzare adesso la nostra epidermica destabilizzazione, in un ambiente dove impera il politicamente corretto vogliamo rompere i coglioni, vogliamo aprire i cuori.
Non si ravvisi alcun intento distruttivo. Non siamo contro i docenti o contro le lezioni: la voglia che ci muove è anzi ri-costruttiva, quello che si tenta è una riedificazione dell’io e di quel territorio dove l’io si spande. Vogliamo passare una bella mano di colore.
Convinti di intaccare anche la sostanza delle cose, il nostro lavoro punta a tutta prima sulle forme: chiunque può accorgersi, con virtuosa esibizione di banalità, che esistono molti modi di dire le cose, diversi linguaggi. Con questo decalogo ne proponiamo uno non nuovo -in sapore di dadaismo- ma abilmente dimenticato dalla nostra pulita benpensante scienza della comunicazione. Perché imprevedibile, difficilmente categorizzabile, non controllabile: l’atto mangiamerdista non è un articolo, non è un’improvvisazione teatrale, non è vandalismo, non è un gelato allo zabaione, forse.
Forse, queste azioni non sono che una sorta di minuto cuneo sociale fattivo, una riconquista del diritto di trans-gredire, un cambio di direzione che ci è altrimenti precluso da binari imposti dalla consuetudine. E tutto ciò su un piano per lo più simbolico: non recano queste azioni reale danno a nessuno e ciò nonostante sanno cambiare -per la durata del loro esistere: è questo, volutamente, il raggio della loro influenza- la situazione concreta delle cose. Noi si va avanti a pane e vino, non a metafisica. Forse.
Forse sono una vera e propria espressione artistica: poetiche nel senso più vero queste nostre azioni che, prodotte dalla crisi, sono per contrasto espressione di una prepotente rinascita, di una primavera che non si ferma al giardino antistante alla mensa ma che entra anche nelle aule, non solo sotto forme di generose scollature muliebri, ma anche come brezza giovanile, come fustigazione esistenziale, come squillo di tromba. Forse.
Forse tutto ciò e tutt’altro, forse, e pure senz’altro manifesto previo, siccome assorbenti esausti, non ci resta che arrendere ai fatti queste note di traduzione, forse, non aggiungere controindicazioni a quelle che già detterà il nostro buon senso e lasciare quindi a noi, o anime impavide, la pratica del decalogo mangiamerdista.

Il decalogo mangiamerdista

1. l'aquirente

Un uomo con indosso un grembiule e un sacchetto entra in un'aula durante una lezione e urla (meglio se con accento napoletano o toscano): -Un panino al crudo e una coca light-. Il complice seduto tra gli studenti si alza e dice: -Sono per me-. Si avvicina all'uomo-grembiule lo paga prende il sacchetto ed entrambi se ne vanno per vie diverse e traverse.

2. il supergiovine

Il supergiovine entra con la moto da cross in un'aula (possibilmente la t4 passando dal prato) prima che inizi la lezione. Quando il prof arriva il supergiovine accende la moto, dando violente accellerate ogni qualvolta il prof manifesti l'intenzione di parlare, sovrastando così la voce di quest'ultimo col suono più supergiovine che ci sia: il rombo assordante di una moto da cross! Il supergiovine continua nella sua azione fino alla fine della lezione, andandosene poi impennando.

3. la torcia umana

In aula un soggetto si dà fuoco al braccio (ovviamente adeguatamente protetto, o anche no) e inizia a correre avanti e indietro urlando: "Aiuto! Aiuto! Sono la torcia umana!" oppure: "Brucerete tutti a coppie di tre!". Finale in cenere.

4. nostalgie inizio secolo

In costumi da bagno anni '30 comprensivi di: canottiere rigate orizzontalmente, pantalone semi lungo, reggicalze a caviglia, calzino, scarpa e baffo; passeggiare nei meandri dell'ateneica struttura, soffermarsi di fronte ad una finestra ed esclamare indignati: "non esistono più le mezze stagioni!"

5. 175 minuti

Uno entra a lezione e si blocca in piedi proprio davanti alla cattedra o proprio in qualsiasi altro posto, postura a piacere, e lìvi rimane immobile come di sale per 175 minuti. Vibratore anale.

6. il duello

Due soggetti vestiti da nobili inglesi si raffrontano in uno dei corridoi dell'università. La tensione sale (possono contribuire altri complici fino a formare un assembramento di curiosi con tanto di scommesse e venditore di bibite). Giunge infine mezzogiorno e al battere del dodicesimo rintocco delle campane (qui sta il problema, a Giurisprudenza so che si sentono le campane, a Lingue non so) i nobili inglesi estraggono e sparano.
Le possibili armi:
-pistole finte
-pistole vere
-pistole vere cariche
-pomodori verdi fritti
-tovaglioli
-fette di mortadella
Concluso il duello un paio di persone portano via il cadavere (vero o finto a seconda dell'arma) del nobile inglese perdente, mentre il vincente se ne va al bar a bersi una spuma.

7. felicità

Lezione di filosofia. Si entra in gruppo, 5,6,7 non importa. Dopo qualche minuto dall'inizio della lezione si iniziano a dare i primi segni di impazienza e sconforto. Ci si accascia sul banco, si portano le mani alla testa, si sbuffa, si getta a terra un guanto con stizza, un paio si alzano e se ne vanno visibilmente delusi. Un complice inizia a singhiozzare. Al culmine dell'insoddisfazione uno si alza e dice: "No ragazzi, così alla felicità non ci arriviamo!" e insieme ai restanti complici si alza e se ne va sconsolatissimo.

8. non possiamo non dirci americani

Ignudi, non sporchi, controllare le condizioni del tempo sopra il giardino. Proclamare con timbro baritonale: "non possiamo non dirci americani". Quindi uscire. E con amore, in numero uguale o maggiore a due, accoppiarsi sopra il giardino e sotto il tempo che sia, usando tutte le dovizie per godere e far godere, senza trascurare nessuna concavità o convessità proprie e altrui.
Ah, l'amour! Ah, l'america!

9. te la sei cercata

Si entra in numero da 5 a 42, con spranghe e catene, e si pesta a morte il primo che capita a tiro. Proprio fino alla morte.

10. Leccatemi la fava

Durante una lezione uno invecchia fino al punto di perdere tutti i denti. Poi si alza, si fa la cacca addosso, e nello sconcerto generale biascica qualcosa, come:
- giovinastri senza vergogna, vergognatevi.
- mi sono fatto la cacca a dosso.
- aiuto. Ho le rughe. Leccatemi la fava.
- l'ho visto, è scappato in quella direzione.
- cosa devo dire?
Poi si denuda, e spicca il suo fallo dal corpo come un mango maturo.


Il tacco: non sense

E invece no. Non tanto il danno l’occhio pedante e critico vede, non tanto il danno la schiena pavida e inane teme, non tanto il danno. Ben prima, ben prima, non si vede e non si teme. Più facile eludere, sdrammatizzare, ben più facile ridicolizzare e minimizzare: inutili questi spasmi creativi, infantili e privi di senso. È questo che il vostro cervelletto non accetta, è questo che vi fa tremare, miseri omuncoli.
Non attacca. Non ci entro più in questo paludoso lago di retorica, troppa gente, fra il piscio dei mocciosi marmocchi grufolano greggi di bagnanti sudati e io no, io non mi voglio bagnare ancora. Eludo, ridicolizzo, nuoto via.
In questo porcileo sguazzare leggo un affanno tipico di voi umani: la ricerca esasperata, ansiosa del perché terrestre. Com’è ozioso tutto questo, quanto è vecchio.
Riscoprire il sottile gusto del non-sense, la libertà dalla gabbia dell’intenzione dichiarata, convincersi che il significato sta sempre altrove, mai univoco. Sentire che le cose sanno nutrirsi di sé e bastare a sé stesse pure senza ratio umana a dettare la traduzione e assegnare il valore, a determinarne dignità d’esistenza.
Questa la rinnovata forma mentis che vuole creare il nostro decalogo, grappolo di succulenti attimi il cui senso -il cui sapore- non si esaurisce in quello che si può spiegare a parole.
Perché il senso di questi attimi d’uva, distillato, è molto meno forte del loro contingente accadere.
Dovete andare, anime belle, dovete fare: interi vigneti ci aspettano, e per ridare vita alla vita non c’è che mangiarsela, a bocca aperta, acino per acino. Adesso.

Il Teatro che Vogliamo


Vogliamo un teatro cattivo. Un teatro che faccia star male la gente. Che non insegni niente, che insegni cose sbagliate, dogmatico e violento. Vogliamo poter prendere a sprangate lo spettatore. Vogliamo che lo spettatore esca infelice. Vogliamo che esca carico di dubbi cattivi, pieno di tumefazioni, zeppo di morte. Piangendo. Vogliamo che lo spettatore non entri. Entra solo chi vogliamo noi. E noi non vogliamo nessuno. Ricostruiamo la quarta parete, la facciamo in vetromattone.


Vogliamo un teatro stupido. Che non capisca un cazzo. Che dica cose scontate e inutili. Un teatro goffo e patetico. Vogliamo essere compatiti. Vogliamo essere derisi. Un teatro che nessuno va a vedere. Spettacoli sciocchi. Frasi intollerabilmente ingenue. Opinioni sul tempo atmosferico.


Vogliamo un teatro servo. vogliamo un teatro che non possa dire quello che vuole. cerchiamo potenti che in cambio di soldi limitino la nostra libertà. vogliamo un teatro sottomesso al sistema, venduto, compiacente. vogliamo catene attorno ai nostri polsi, mazzate sulle nostre schiene, ago e filo a cucire le nostre labbra. Se si può.


Vogliamo un teatro indeciso. anzi no. anzi sì. anzi no. anzi sì. anzi no. anzi sì. anzi no. anzi sì anzi no. anzi sì. anzi no. anzi sì. anzi no. anzi sì. ni. so.

Vogliamo un teatro canalare. lo scorrere delle gesta deve insinuarsi nella più remota delle cognizioni per vivere in quell'attimo ed in quello soltanto per poi perdersi.

Vogliamo un teatro sponsorizzato. luci sulle nostre teste; vogliamo insegne luminose di bevande che ti fanno correre più del vento, vogliamo non sentire il rimorso di vendere inutilità.

Vogliamo un teatro in odore di santità. padre nostro che sei nei cieli sia santificato il nome e venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.

Vogliamo un teatro T'ai Chi T'u, in cui si sposino la violenza del tango e la dolcezza del kung-fu. Questo vogliamo. Problemi?

I bruscansi


Ingredienti per 4 persone:
1,6 kg di bruscànsi (germogli del pungitopo)
8 uova
Olio extravergine d’oliva del Lago di Garda
Sale e pepe
Aceto
Formaggio grana grattugiato

Preparazione
Pulite i bruscànsi togliendo la parte finale più dura (quella cioè che era vicina alle radici). Lavateli in abbondante acqua, scolateli e legateli in quattro mazzetti. Portateli a bollore in acqua salata, tenendoli in piedi nella pentola e facendo in modo che le punte fuoriescano dall’acqua: userete perciò una pentola alta e stretta. Bollite a parte le uova per circa 9 minuti. Quando i bruscànsi sono cotti (15-20 minuti), toglieteli dall’acqua, tagliate lo spago che legava i mazzetti e disponeteli nei piatti. Conditeli con olio e sale pepe e grana e serviteli con le uova pelate, tagliate a metà e condite a loro volta con olio, pepe, sale e aceto.