Lightbox Effect

hard road to the dark side


Ho un ardente piacere che mi prende il fegato, arde, mi fa stare malissimo.
Caro diario, qual'è il passo da fare, dove, dimmi la direzione, dammi il peso del piede, dimmi lo stile la scarpa il calzino.
Non mi arrendo, non mi arrendo, o mi arrendo subito, prima di cominciare, così non se ne accorge nessuno. No, troppo tardi.
Continuo ad avere debolezza e forza in promiscuo incastro, esattamente nello stesso posto, cresce l'una e cresce l'altra, così non va, non può continuare, serve recidere. Tra le altre cose, soprattutto, questo posto si chiama incertezza, indefinibilità. Così si chiama.
La mia forza, la mia debolezza: di cosa parlo, non so dire.
Eppure è necessario, da una parte la libertà, dall'altra la comunicazione, non sono solo, non ho intenzione di esserlo, da una parte ci sono io, dall'altra voi, tutti voi.
E' un bel problema, quando ci si ritrova ostinati a versare nel mercimonio della parola, è un problema serio, che moneta mi si può accettare, che cosa ho da offrire, che cosa voglio dare. Parola, parola, nostra stupida sofisticheria, vizio angusto -aria viziata- ne vengo fuori. Ne verrei fuori con impeto, con sbrego, con pazienza di lumaca, ci provo senza sapere come fare, ci provo altrove, non qui. Qui conta la filigrana, quello che si intravede al di là -e non vale il poco dire dalle ampie maglie, nè è la colpa del troppo dire, un buon scrivere forse aiuterebbe, forse, aiuterebbe a vedere, ma cosa, sempre di parola si tratta- quello che si può intuire non sarà mai esattamente quello. Per arrivare laggiù ci sono altre vie, nessuno sa mai come percorrerle prima di averlo fatto, nessuno sospetta, nessuno sa di averle percorse prima di girarsi indietro.
Qua, quindi, mi limiterò a lamentarmi.
Salacadula. Megicabula. Bibidi, bobidi, bu.
Tutto parte da un impressione: l'impressione è giusta, almeno in due accezioni. La seconda parla di come deve essere il suo viso, il suo viso dovrebbe venire fuori dalla mano di Manet, che rimanga impressione, e così sia.
Mi chiedo, scuotendo il capo -ma senza farlo- con ingenuità che solo uno studente si può permettere: cosa c'è di meglio? Ho ragione. Ma farei meglio ad andare per gradi, farei meglio a chiedermi: cosa c'è di uguale? Domanda meno assoluta, più controversa e ancora più ingenua, di quell'ingenuità che non fa sorridere, o solo un poco. Vale dire che il mondo è grande, che non c'è niente di uguale, che il mondo è grande, che c'è una moltitudine di cose uguali? No, usciamo da questo stuccoso gioco dell'ingenuità.
Abbiamo un'occasione sulla bocca delle dita, soprattutto questa è la mia impressione, un'occasione unica -non conta che possa essere uguale a moltitudine d'altre- un'occasione schiettamente irripetibile. La posta in gioco è altissima, quello che si può perdere è forse molto di più di quello che potrebbe riempire la saccoccia, qualcosa da raccontare ai nipotini, una passeggera soddisfazione, alcun brivido -all'apparenza, soprattutto questa è la mia impressione.
E sono altisonante, adesso dico quello che si rischia e altisuono: si rischiano le botte, si rischia l'incomprensione, si rischia, soprattutto questa è la mia impressione, la profonda messa in discussione di ciò che profondamente ci costituisce, la krisis, mamma mia, lo scacco -come mugugnava Socrate quando nessuno poteva sentirlo.
Mica cazzi.
Il mio problema è che soffro di strumentale strabismo, che amabile difetto, per questo mi amo: confondo i piatti della bilancia, mi capita di non distinguere rischi e guadagni, gioco a ribaltarli, gli uni da una parte gli altri dall'altra.
Come spiegarlo a chi si accomoda, come spiegare il brivido possibile? Come farlo, senza che l'entusiastica convinzione venga scambiata per arrogante megalomania?
Fischiettare, potrebbe essere un modo.
Fischiettarlo.
Ci sono cose più facili da fare, più immediate, che raccolgono più consensi, più volenterosi aiuti, barili di compassione, di empatia. Più uguali.
In generale, si gioca ad impegnarsi, si fanno cose belle, cose limpide e utili.
Mamma mia dammi cento lire, che sulla faccia nascosta io voglio andar.
Firulì, firulà.

Nessun commento:

Posta un commento